Gli insegnamenti del Buddha non parlano esplicitamente dell’eutanasia; ne deriva che le opinioni dei buddhisti non sono unanimi su questo scabroso argomento. In primis è necessario distinguere tra eutanasia involontaria (cioè l’eutanasia praticata senza il consenso del morituro) ed eutanasia volontaria, cioè, il cosiddetto «suicidio assistito». Lasciando da parte la prima, considerata omicidio dai codici penali di tutto il mondo, l’eutanasia volontaria presenta numerosi problemi etici. Il primo di questi problemi è che il desiderio di morte (così come il suo contrario, il desiderio di vita), è indice di quella sete di esistenza (taṇhÄ) in cui la Seconda Nobile Verità identifica la causa radicale del dolore. Se la meditazione e il corretto uso dei farmaci antidolorifici, non consentono al morente di raggiungere uno stato di non sofferenza mentale, tale da non dover contemplare l’eutanasia o il suicidio come via d’uscita dal dolore, che fare? Non si può dare una risposta univocamente valida. La cosa più ragionevole sembra che si debba valutare caso per caso, dato che, alla fin dei conti, siamo tutti casi singoli.
Va considerata anche l’obiezione che contribuire a por fine alla vita di qualcuno rischia di procurare all’assistente alla morte stati mentali insani (akusala) che sarebbe meglio evitare perché potrebbero influire negativamente sul suo percorso spirituale. L’etica buddhista pone grande enfasi sull’astenersi dal male e dal mettere fine alla vita. Il primo imperativo etico, vincolante per laici e monaci è l’impegno a rispettare e proteggere la vita di persone, animali e piante. Il riferimento è alla vita ― ogni vita ―. Perciò porre intenzionalmente fine alla vita è un atto contrario a un insegnamento fondamentale del Buddha.
Un parere del Dalai Lama
Il Dalai Lama, in un articolo a cura del Canada Tibet Committee, pubblicato il 18 September 1996 su World Tibet Network News, dichiarò accettabile l’eutanasia per «coloro che sono in coma senza possibilità di recupero». A una domanda su quale fosse il suo punto di vista sull’eutanasia, il Dalai Lama disse che i buddhisti credono che ogni vita sia preziosa — tanto più quella umana —, aggiungendo: «Credo che sarebbe meglio evitarla. Ma, nello stesso tempo, penso, come per l’aborto, (che) il buddhismo considera un’uccisione … che la via buddista sia di valutare coscienziosamente il bene e il male ovvero tutti i pro e i contro». Citò quindi il caso di una persona in coma senza possibilità di recupero e quello di una donna la cui gravidanza metteva in pericolo la sua vita o quella del bambino o quella di entrambi, casi in cui il danno causato dal mancato intervento sarebbe potuto essere più grande. «Questi sono, credo, dal punto di vista buddhista, casi estremi» disse. «Quindi è meglio valutare caso per caso».

Monaco in fiamme: Saigon, 1963
Alcune regole monastiche buddhiste, vietano esplicitamente l’eutanasia; ma per i laici non c’è un codice di condotta altrettanto dettagliato. Sono tenuti «solo» all’osservanza dei cinque precetti, il primo dei quali, però, è «non uccidere». La maggior parte dei buddhisti considera la morte come una transizione. La persona che muore rinascerà a nuova vita, la cui qualità sarà il risultato del karma pregresso. Questa credenza genera due problemi. In primo luogo, non si può sapere come sarà la successiva vita del morente. Se fosse peggiore della vita attuale, l’eutanasia sarebbe chiaramente un errore, perché ponendo termine all’attuale stato delle cose, favorirebbe l’instaurarsi d’uno stato ancora peggiore. Insomma, la persona sofferente passerebbe dalla padella alla brace. Il secondo problema è che abbreviare la vita interferirebbe con la maturazione del karma e altererebbe l’equilibrio karmico risultante dalla vita volontariamente terminata. Un’altra difficoltà ancora si presenta se consideriamo l’eutanasia volontaria come una forma di suicidio.
Il Buddha, in due casi (Vakkali Sutta e Channa Sutta, entrambi nel Samyutta NikÄya, vedi qui sotto) mostrò tolleranza di fronte al suicidio compiuto dai bhikkhu. La tradizione giapponese narra molte storie di monaci che si danno la morte. Inoltre il suicidio è stato usato come arma politica dai monaci buddhisti durante la guerra del Vietnam. I suicidi dei laici tibetani attuati recentemente in India e Tibet sarebbero un caso ancora diverso. Perché, secondo le credenze buddhiste, il modo in cui finisce la vita ha un profondo impatto sul modo in cui comincerà la vita successiva. Quindi lo stato mentale di una persona al momento della morte è cruciale: il pensiero del morente dovrebbe, idealmente, essere generoso e illuminato, esente da rabbia, odio o paura. Ciò fa pensare che il suicidio (e quindi l’eutanasia) sia praticabile senza ricadute karmiche indesiderabili solo dalle persone che hanno raggiunto un elevatissimo grado di risveglio.
Il Vakkali Sutta
Nel Vakkali Sutta (Samyutta NikÄya 22, 87) il monaco Vakkali, «infermo, afflitto, gravemente malato» confida ad altri monaci la sua intenzione di uccidersi con un coltello. Dopo aver appreso dell’intenzione di Vakkali, il Buddha gli fa personalmente visita, per parlare con lui. Nel corso del loro colloquio appare evidente che Vakkali è ben progredito sul sentiero verso il Risveglio, avendo già acquisito una cognizione profonda e di prima mano della natura impersonale, impermanente e, in definitiva, insoddisfacente dell’esistenza. Dopo essersi accommiatato da Vakkali, il Buddha sale sul vicino Picco dell’Avvoltoio per trascorrervi il resto del giorno e della notte. Durante la notte riceve la visita di «due deva di straordinaria bellezza», venuti a ricordargli che Vakkali era «intento alla liberazione» e che «sarebbe stato libero come uno ben liberato». Il giorno dopo il Buddha dà ai monaci un messaggio da consegnare a Vakkali in cui gli racconta della visita di buon auspicio dei deva e lo assicura che la sua sarebbe stata una buona morte: «Non aver paura, Vakkali, non temere. La tua non sarà una brutta morte». Vakkali, dopo aver ricevuto questo messaggio dal Buddha, fa, come preannunciato, «uso del coltello», e si uccide. Dopo aver ricevuto la notizia del suicidio di Vakkali, il Buddha guida un gruppo di monaci fino alla Roccia Nera sul versante Isigili, donde si poteva vedere il cadavere di Vakkali:
«Allora il Sublime, insieme con un certo numero di monaci, va fino alla Roccia Nera sul versante Isigili. Vede in lontananza il venerabile Vakkali sdraiato sul letto di morte, girato di spalle. Allora si forma una nuvola di fumo, un vortice di oscurità , che prende a muoversi prima verso Est, poi verso Ovest, verso Nord, verso Sud, verso l’alto, verso il basso, e verso le direzioni intermedie. Il Sublime si rivolge così ai monaci: «Vedete, bhikkhu, quella nuvola di fumo, quel vortice di oscurità , in movimento verso Est, poi verso Ovest, verso Nord, verso Sud, verso l’alto, verso il basso, e verso le direzioni intermedie?» «Sì, venerabile Signore». «Ebbene quello, bhikkhu, è Mara il Maligno che cerca, senza trovarla, la coscienza del nobile Vakkali, chiedendosi: “Dov’è andata a finire la coscienza del nobile Vakkali?â€. Tuttavia, bhikkhu, con la coscienza a nulla appresa, il nobile Vakkali ha raggiunto il NibbÄna finale».
È evidente in questo sutta che la decisione di Vakkali di uccidersi, con la motivazione di por fine all’inutile dolore associato alla sua malattia terminale, non fu riprovata dal Buddha né interferì con la personale realizzazione di Vakkali della liberazione totale (NibbÄna).
Il Channa Sutta
Nel Channa Sutta del Samyutta NikÄ ya (35, 87), il monaco Channa, intensamente sofferente a causa di malattia, confida ai monaci SÄriputta e Mahacunda che le sue condizioni peggiorano e che, perciò, ha intenzione di uccidersi con un coltello:
«Amico SÄriputta, io non sto migliorando, non sono nemmeno stazionario. Anzi, forti sensazioni dolorose sono in aumento in me, non in diminuzione, e io registro il loro incremento, non la loro remissione. Fitte violente sembrano spezzarmi la testa, come se un uomo dal forte braccio la volesse dividere in due con una spada affilata. Io non sto per niente migliorando … Avverto violenti dolori alla testa, come se un uomo nerboruto volesse stringerle intorno, a mo’ di fascia, una cinghia di duro cuoio. Io non sto migliorando …. Fitte violentissime mi straziano la pancia proprio come se un esperto macellaio o il suo apprendista aprissero la pancia di un bue con un coltello affilato. Non sto per niente migliorando … Avverto nel corpo un bruciore violento, come se due uomini forzuti prendessero un uomo più debole per le braccia e lo arrostissero sopra una fossa piena di carboni ardenti. Non sto affatto migliorando. Forti sensazioni dolorose sono in aumento, non diminuiscono, e io registro il loro incremento, non la loro remissione».
SÄriputta e Mahacunda esortano Channa non uccidersi, ma lui decide di farlo comunque, affermando di aver condotto una vita «irreprensibile». SÄriputta, credendo che Channa avesse infranto dei precetti del PÄtimokkha (il rigido codice morale di 227 regole osservato dai monaci) stringendo impropri rapporti con i laici e temendo che, come conseguenza di ciò, non fosse riuscito a ottenere il NibbÄna dopo la morte, si fa appresso al Buddha per conoscere la natura della rinascita di Channa. Il Buddha gli risponde che Channa non aveva fatto nulla di male e che aveva, perciò, raggiunto la libertà dal ciclo di nascita e morte (NibbÄna):
«In effetti il venerabile Channa era amico di queste famiglie, SÄriputta, famiglie accoglienti, famiglie ospitali, ma non per questo era biasimevole, SÄriputta. Se avesse lasciato questo corpo e avesse preso un altro corpo, allora avrei detto che era colpevole. Ma ciò non è avvenuto. Il bhikkhu Channa ha usato il coltello senza colpa. Così, SÄriputta, va ricordato».
Il profano lettore del sutta, leggendo del suicidio di Channa, potrebbe concluderne che il suicidio, se effettuato per evitare un insopportabile dolore fisico associato alla malattia terminale, era considerato dal Buddha stesso un atto accettabile. La chiave per la corretta comprensione dell’episodio sta, invece, nella cognizione che il Buddha aveva, grazie ai suoi poteri sopranormali, della non-rinascita di Channa: non essendo rinato, allora vuol dire che era senza macchia, era cioè un risvegliato.