L’arte della semplicità

«Si potrebbe dire che la meditazione è l’arte della semplicità: sedersi semplicemente, respirare semplicemente, semplicemente essere». La citazione, famosa, è da attribuirsi a Dilgo Khyentse Rinpoche (nelle foto), anche se in seguito ha fatto il giro di molti gruppi di meditazione e di molte scuole, buddhiste e non. Nel momento in cui la applichiamo alla nostra pratica, ci accorgiamo che la difficoltà sta tutta in quell’avverbio ripetuto tre volte: semplicemente. Alcuni di noi passano gran parte del tempo seduti, ma non lo fanno semplicemente. Sedersi semplicemente significa sedersi senza la pretesa di «fare» niente di speciale. Ci si siede semplicemente, non per «fare» zazen, né vipassanā né yoga né guru meditation. La pratica non è un fare. Ci si siede con semplicità e senza aspettative di fronte al profondo imperscutabile mistero della nostra vita, accontentandosi di un sobrio e onesto atto di presenza. Presenti al nostro destino, presenti al Buddha in noi, presenti al Dharma onnipresente, presenti alla comunità di pratica.

Per mantenere l’attenzione laddove è meglio che stia, cioè, nel corpo, ci disponiamo a restare semplicemente presenti al respiro che viene e che va. Semplicemente presenti vuol dire osservare, senza interferire, le sensazioni originate dall’espirazione e dall’inspirazione così come si susseguono l’un l’altra; senza aggrapparsi, senza rigettarle, senza volerle modificare, né regolamentare, né guarire, né allungare, né abbreviare, ma lasciando che siano così come vengono naturalmente. Semplicemente implica qui il lasciar andare, il lasciare che siano come sono, mollando l’ansia di controllo e l’aspettativa di un risultato.

Mentre il corpo e il respiro si adagiano nella loro spontanea e naturale saggezza intrinseca, noi ci lasciamo vivere, mantenendo accesa, istante per istante, solo la presenza mentale. Semplicemente essere implica l’abbandono di qualunque dover essere, o voler essere. Siamo ciò che siamo e ne siamo attentamente coscienti, senza giudizio, senza progetti, senza attendere nulla, né Godot né l’illuminazione. È in questo sublime paradosso che la proliferazione concettuale s’acquieta e si creano le condizioni perché la nostra vera natura si manifesti. Scopriamo così che il risveglio non si «raggiunge», perché è sempre stato con noi, dentro di noi, più vicino a noi della nostra stessa vita.

 

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